Dal volume Mabruk. Ricordi di un'inguaribile ottimista
Nadia Gallico Spano
Mabrúk. Ricordi di un’inguaribile ottimista
alle pp. 252-255, 258



Quando fummo nel pieno della campagna elettorale, la città visse per mesi in un clima di tensione. A Roma la situazione era particolare, rispetto alle altre grandi città, anche per l’impatto simbolico della presenza del re Vittorio Emanuele e della corte. La posta in gioco era molto alta. Il referendum istituzionale era stato affidato con molto coraggio da parte dei partiti antifascisti a un elettorato che in maggioranza non aveva mai votato. Sotto il fascismo si erano svolti soltanto plebisciti, non elezioni. Le ultime avevano avuto luogo nel 1924. Quindi, oltre alle donne, anche gli uomini al di sotto dei 40 anni votavano per la prima volta.
Bisognava impegnarsi al massimo. Velio era partito per la Sardegna dove si presentava come capolista. Rosa volle portare le bambine a casa sua, ad Ariccia, e la sera andavano in sezione dove c’erano i facsimile delle schede e per invogliare a votare per me ne riempirono un certo numero con la scritta «mammina». Con le bambine al paese ero più libera e potevo dedicare tutto il tempo necessario alla campagna elettorale che si presentava assai difficile. Ero fuori casa dalla mattina presto fino alla sera tardi.
Una prima questione si pose subito: per molte persone scegliere il simbolo e segnare le preferenze sarebbe stato difficile. Bisognava quindi insegnare a votare. Non si trattava di spiegarlo dall’alto di una tribuna ma si doveva andare casa per casa e con pazienza, soprattutto se si trattava di persone anziane, aspettare che provassero e riprovassero fino a essere ben sicure di non sbagliare. Queste visite permettevano di discutere con le donne sul fascismo, sulle colpe della monarchia, sullo stato nuovo da creare e sui diritti delle donne. Permettevano anche di sfatare la paura del «salto nel buio» messa in giro dai nemici della Repubblica. Ed era bello entrare in una casa e sentirsi accolti dal sorriso di una donna che ci diceva semplicemente: «Lo so, la pupazza!», accennando così all’Italia turrita, simbolo della Repubblica, mentre per la monarchia c’era lo stemma dei Savoia. Cominciò così il metodo del «lavoro capillare» o del «porta a porta» praticato per anni dalle nostre sezioni e che fu alla base del forte radicamento del Partito nell’elettorato. Anche la Democrazia cristiana aveva lo stesso problema, ma poteva contare sull’aiuto delle parrocchie dove agli elettori si distribuivano anche pacchi di generi alimentari in cambio del voto. Le preferenze avrebbero poi permesso di controllare se l’impegno era stato rispettato.
Era evidente che i comizi centrali e di quartiere non sarebbero stati sufficienti per raggiungere tutti gli elettori. Si inventarono nuove forme di propaganda: i comizi volanti e quelli di caseggiato. Furono mobilitate tutte le forze del Partito. Entravamo nei cortili dei grandi caseggiati popolari, piazzavamo nel mezzo un altoparlante quando l’avevamo, altrimenti a braccio e tirando fuori tutto il fiato possibile, cominciavamo a parlare, mentre a poco a poco le donne si affacciavano alle finestre. Arrampicandoci sul retro di un camion percorrevamo le vie di un rione fermandoci ogni tanto e cominciando a parlare, magari issati fortunosamente su qualche monumento. A me sembrava di fare come i venditori ambulanti. Avevo una voce forte e squillante, che arrivava lontano, e riuscivo spesso a far fermare un certo numero di persone. Dopo un po’ ci spostavamo più in là e si ricominciava. Eravamo convinti che questi piccoli incontri in cui si diceva l’essenziale fossero più efficaci di lunghi discorsi con troppi temi. Tutte le sezioni si erano procurate le liste elettorali e il lavoro si svolgeva ordinato e metodico per raggiungere il maggior numero di persone.
I partiti antifascisti avevano senza dubbio dato prova di grande coraggio affidando una scelta così impegnativa direttamente a un elettorato alle prime armi. Questa era la dimostrazione del clima nuovo che si voleva istaurare, basato sulla fiducia nel giudizio del popolo. Rimaneva per tutti l’incognita del voto femminile. Questa conquista fondamentale era passata quasi in sordina. Non erano state necessarie grandi lotte o manifestazioni, nessuno schieramento aveva osato prendere posizione contro l’estensione alle donne del diritto di voto. Soltanto il segretario del partito liberale, Manlio Lupinacci, intervistato da me per “Noi Donne”, aveva dichiarato la sua perplessità, aggiungendo subito che tuttavia la ragione gli consigliava di non opporsi; non ho mai ben capito se fosse davvero la ragione o piuttosto se a convincerlo fosse stata la moglie, Josette Lupinacci, attivissima nel Comitato pro-voto.
Le donne avrebbero quindi votato per il referendum istituzionale e per l’Assemblea Costituente. Ma nessuno avrebbe potuto predire in quante, come e per chi avrebbero votato. Era quindi necessario, per tutti i partiti, programmare un’azione particolare nei loro confronti, far emergere i problemi più sentiti, elaborare forme di propaganda più adatte alla loro sensibilità, individuare candidate e farne eleggere alcune. C’era poco tempo. Le elettrici erano molto numerose, bisognava conquistarne la fiducia facendo conoscere il nostro programma, assumendo iniziative tese, come si disse allora, ad alleviare le sofferenze delle masse, diventando noi, donne comuniste, un punto di riferimento. In quel periodo infatti la radio non era molto diffusa, comprare i giornali era considerata una spesa superflua. I partiti assunsero allora una grande importanza come luogo dove trovare un consiglio o esprimere una protesta, e fecero da tramite con le strutture che il fascismo e la guerra avevano distrutto e che si andavano ricostruendo non senza difficoltà.
La novità del voto alle donne aveva imposto ai vari partiti di elaborare una propaganda specifica. La Democrazia cristiana temeva un forte astensionismo delle donne, molte delle quali erano assai tiepide di fronte alla partecipazione politica. Sui muri campeggiavano manifesti che invitavano a non disertare le urne: «Mamma vota per me!» era il grido lanciato su un cupo manifesto da un prigioniero aggrappato a un filo spinato; «Mamma vota per me!» gridava gioioso un neonato da un allegro volantino. Stranamente non c’era volantino o manifesto che dicesse: «Donna, vota per te, per i tuoi diritti!». Noi stesse insistevamo maggiormente sul contributo che le donne avrebbero potuto dare per un migliore ordinamento della società; era un passo avanti, anche se timido, per superare il ruolo subalterno della donna e per affermare la sua nuova collocazione nella società, ma era insufficiente. Noi avremmo dovuto sottolineare che la partecipazione alla vita politica delle donne è un diritto naturale.
[…]

Il giorno delle elezioni fu un po’ particolare per me: compivo trent’anni. Velio che votava in Sardegna mi mandò addirittura due telegrammi di auguri. Come me, molte donne che hanno partecipato a quel primo voto ricordano l’emozione provata. Non è retorica; tutte sentivamo di compiere per la prima volta un atto che avrebbe aperto un’epoca nuova. Le donne si pigiavano pazienti di fronte ai seggi elettorali, compilavano le loro schede senza fretta, poi uscivano dalla cabina con il viso soddisfatto di chi ha compiuto il proprio dovere. Per conto mio non pensavo alla mia candidatura, ma consideravo la votazione come la conferma di un grande passo avanti per le donne. Al momento però di indicare le preferenze pensai che era ridicolo che io votassi per me stessa e, dopo aver segnato quelle indicate dal Partito, votai per un compagno, Aldo Natoli, che stimavo molto e che era diventato da poco segretario della Federazione.

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Dal volumeBello, bello anche il mondo di quaggiù
Bello, bello anche il mondo di quaggiù!
Letteratura e poesia nella Cagliari del Novecento

pp. 283-290

Tre poetesse per la repubblica*
di Stefano Pira


La biografia di Mercede, Francesca e Teresa Mundula può aprire uno squarcio illuminante sulla storia culturale dell’élite cagliaritana nella prima metà del Novecento. Le tre sorelle Mundula, nate tra il 1890 e il 1894, iniziano il loro percorso culturale maturo nel primo decennio del Novecento. Il padre notaio, presidente dell’ordine notarile di Cagliari, segretario degli Ospedali riuniti, amico del sindaco Ottone Bacaredda, la madre figlia di un medico, appartengono alla migliore borghesia professionale e culturale della città. Lo stesso archivio privato Mundula (conservato meritoriamente dalle figlie) rappresenta una fonte importante per ricostruire la storia della Cagliari contemporanea.
Se l’avvio della vita culturale delle sorelle Mundula è situato al tramonto della Belle Epoque in Europa, la loro partecipazione al voto referendario istituzionale del 2 giugno 1946 rappresenta l’esito di una maturazione politica che le vede ancora una volta unite poco prima della scomparsa di Mercede nel 1947.
Le sorelle Mundula votano per la Repubblica con motivazioni profonde e consapevoli. Le loro lettere, tra il maggio e il giugno del 1946, testimoniano la forte tensione morale e politica di quella stagione nel mondo cattolico femminile.
Il 30 maggio del 1946 Francesca Mundula scrive alla sorella Mercede:
«Siamo alla vigilia delle elezioni per la Costituente e del Referendum per la monarchia e vado ripensando i motivi che mi spingeranno a lasciar cadere le mie piccole croci … sul segno della repubblica e forse su lo scudo crociato della democrazia cristiana (mi dispiace però che i candidati della democrazia, tranne Segni, siano cos’e pagu!).
Sono per la repubblica perché mi pare che dovendo ricominciare sia il caso di ricominciare da capo, ex novo, e non pensare a un riadattamento del vecchio perché temo la casta militare e l’ho in antipatia, perché reputo necessario far sentire al popolo la sua piena responsabilità, e [reputo] indispensabile l’educazione politica di esso, che non si effettuerà mai nella pratica se non si cimenterà e non si arricchirà dell’esperienza.
Ho notato che i ragionamenti di coloro che non vogliono la repubblica son gli stessi di chi non vuole scuole popolari […] insomma gente nemica del progresso e della democrazia. Capisco i motivi sentimentali: comunque guardare avanti. Se poi dobbiamo anche guardare all’estero preferisco guardare la giovane repubblica americana».
Per cogliere la tensione ideale, e una sorta di spirito giovanile che traspare da questa lettera, è necessario ricordare la biografia di Francesca Mundula.  A Roma, si laurea al Magistero (non presente allora nell’Università di Cagliari). Diventa professoressa di Belle lettere nel 1915 e di Pedagogia e Morale l’anno dopo. Nel 1917 pubblica il suo primo libro Prigionieri politici del nostro Risorgimento attraverso le loro memorie tra gli altri Pellico, Bini e Settembrini. Il libro ha un immediato successo nel clima fortemente patriottico dell’anno più tragico della Grande Guerra, riceve recensioni favorevoli da numerosi giornali nazionali e stranieri. Francesca avrà una vita intellettuale intensa, poetessa e pittrice, amica di artisti e studiosi docenti dell’università di Cagliari: da Melis Marini a Toffanin a Pallottino. Sfollata da Cagliari per sfuggire ai bombardamenti del 1943 si trasferisce con la famiglia nella cittadina di Villacidro. Diventerà amica dello scrittore Giuseppe Dessì, che da allora le sottoporrà i suoi lavori letterari prima della pubblicazione. La loro amicizia durerà per tutta la vita, come testimonia il ricco epistolario.
Alla luce di queste note biografiche possono essere meglio interpretati i suoi accenni alle scuole popolari («coloro che non vogliono la repubblica son gli stessi di chi non vuole scuole popolari […] insomma gente nemica del progresso e della democrazia») alla sorella Mercede nel maggio del 1946. Chi scrive è un’intellettuale ma è anche un’educatrice consapevole che il concetto di patria va rinnovato e ritrasmesso ai ceti popolari attraverso la nuova forma istituzionale della Repubblica.
Una prova di antiretorica da parte di una donna che era diventata vedova di guerra ancor prima del matrimonio, avendo perso il fidanzato sul fronte, trentuno anni prima, nel 1915 e che ora, alla vigilia del referendum istituzionale, giudicava sbagliato non responsabilizzare le masse popolari, sia con l’educazione scolastica che con la scelta della Repubblica come nuova e consapevole forma di partecipazione politica, rispetto alla compromessa monarchia, ancora appoggiata da quella che Francesca Mundula definiva come la pericolosa casta militare.
Il 2 giugno 1946 Francesca Mundula vota a Cagliari per la Repubblica e così descrive la giornata alla sorella Mercede, rimasta a Roma: «Sebbene presto alla mia sezione … c’era già una lunghissima fila: così ho pensato d’ascoltar prima la messa, il che ho fatto con un certo raccoglimento nella vicina cappella delle suore.
Poi con pazienza e stanchezza dopo un’oretta di fila ho votato per la repubblica e per i democratici cristiani. Forse avrei votato per i socialisti, se l’ambiente in cui vivo non fosse stato decisamente democristiano. Dato che ero un po’ incerta mi sono schierata con i familiari».
Confessa alla sorella Mercede le sue indecisioni, dopo aver descritto il seggio elettorale con la lunga fila di «suore, signore eleganti, popolane… e uomini egualmente appartenenti a tutte le classi sociali». Ammette la sua incertezza riguardo i partiti, mentre sul plebiscito non ha avuto dubbi: «Mi sta a cuore la questione sociale», ma aggiunge di non essersi appassionata né ai programmi né alla lotta dei partiti.
La risposta di Mercede Mundula da Roma è datata 9 giugno 1946 ed è una lettera che sorprende la sorella per la passione con la quale è stata scritta. Francesca definirà quelle righe un documento storico.
Scrive Mercede a Francesca: «Sono contenta che anche tu abbia votato, maturando entro te stessa il convincimento, per la repubblica. Le tue validissime ragioni, sono precisamente quelle che hanno spinto anche me sulla strada del “rinnovamento”. Io sono sempre per il principio di dare a ciascuno il senso della propria responsabilità, quindi anche ai popoli. Ciò che più mi offende nelle dittature (nere e rosse) è per l’appunto l’annientamento dell’individuo, essere pensante. Disciplina non morfina. Basta con gli stupefacenti. Ne siamo ancora intontiti. Ho votato per la democrazia cristiana perché era necessario porre una remora al dilagante materialismo storico. (E il fenomeno dell’affermarsi del principio cristiano in Olanda, Belgio, Francia, Italia è la prova più evidente di questo bisogno di punti fermi al di sopra della mischia ed è fenomeno che mi pare vastissimo dell’occidente contro l’oriente). Se non fosse appunto per questa premessa ideale e per le riserve di carattere, diremo filosofico, le mie simpatie sarebbero tutte per il socialismo. Un socialismo… purgato, sarebbe stato il mio partito ideale. Spero che ci si arriverà.
Sono stata per due domeniche di seguito in due roccaforti monarchiche ma gli argomenti validi dei sostenitori del trono mi sono parsi deboli o fasulli come diciamo a Roma. Mi pare più onesto dire come Baldini “voto per simpatia” ma in un momento come questo cavarsela con uno scherzetto mi pare poco.
La massa dei votanti è stata esemplare. Un contegno, una serietà, un senso di responsabilità superiori ad ogni elogio. Ora mi pare che con tutti questi [nuovi] cavilli stiano sciupando le cose. Il basso ha dato un esempio all’alto … Eccitare le speranze inutili, tenere su la corda i frenetici, acuire gl’isterismi mi pare opera deleteria…
[…] Intanto i cavilli, il proclama inconsulto del Re non sono valsi a nulla e la Repubblica riconosciuta legale dalla Corte di Cassazione … retta saggiamente da De Gasperi, sorretta dalle mani degli italiani che l’hanno fortemente voluta, vive.  Ho quasi paura di dirlo per Nemesi … ma essa vive. Mi pare un sogno! Un bel sogno. Mazzini sarà domani più grande che mai… il profeta della nuova Europa, la voce appassionante del dovere.
Ringrazio il Signore d’avermi fatto conoscere la liberazione dal potere temporale della Chiesa e la proclamazione della Repubblica, due avvenimenti grandi da cui nasceranno grandi cose per il mondo cattolico e per la cara Italia».
Queste parole testimoniano un’ansia di rinnovamento e, forse, anche il timore della guerra fredda imminente. Nel caso di Mercede Mundula la sua passione politica è sorretta da un successo culturale, arrivato per lei a livello nazionale, tra gli anni Venti e Trenta.
Il caso delle sorelle Mundula indica bene come Cagliari abbia avuto, ben oltre il periodo d’oro bacareddiano e coccortiano, una borghesia intellettuale aperta e colta.
Prima di prendere in esame la brillante biografia intellettuale e letteraria di Mercede bisogna ricordare che la terza delle sorelle Mundula, Teresa, moglie di Luigi Crespellani, sindaco di Cagliari nel 1946 e primo presidente della Regione Autonoma della Sardegna nel 1949, viene ricordata come donna colta, spiritosa ed arguta, in linea con lo spirito di una cagliaritanità oggi quasi scomparsa. Giovane e promettente scienziata negli anni Venti del Novecento, sarà nella maturità una poetessa di notevole successo in lingua sarda cagliaritana. Nata nel 1894, laureata in Chimica e in Scienze Naturali, diventata “aiuto” della cattedra di Fisica Sperimentale dell’università di Cagliari, tiene corsi universitari della disciplina, partecipa a Roma al Congresso internazionale di fisica nel 1927, che raduna i migliori fisici del mondo scientifico di allora, come testimoniano gli appunti di Teresa. Sarà solo la terza maternità, alla fine degli anni Venti, a fermare la scienziata, ma non la sua robusta vena poetica in lingua sarda, che la accompagnerà per tutta la sua lunga vita.
Delle tre sorelle Mercede è quella destinata ad avere una carriera letteraria precoce. Brillante negli studi sin da giovanissima, il 3 luglio 1908 Mercede Mundula riceve la rara licenza d’onore per il diploma conseguito presso la Scuola Normale di Cagliari. Si sposa ventenne, si trasferisce a Roma e già nel 1917 collabora con «Il Tempo», descrivendo e analizzando i personaggi femminili di Grazia Deledda. Tra i suoi primi estimatori Ottone Bacaredda, giurista, scrittore e sindaco di Cagliari nella sua stagione migliore. Sarà buon profeta. Mercede nella sua vita non lunga (la sua scomparsa è del 1947) avrà successi letterari a livello nazionale, diventando la poetessa sarda più nota in Italia. Conosceva la letteratura francese in lingua originale e leggeva in inglese i grandi poeti Schelley e Keats. Del 1923 è il suo primo volume di versi, con l’editore Cappelli di Bologna, dal titolo La piccola lampada. Si aprono per Mercede le porte dei salotti letterari romani e italiani. Le recensioni al libro sono decine, i principali giornali nazionali ne parlano. Ettore Janni sul «Corriere della Sera» elogia i suoi versi per il senso musicale, sul «Giornale d’Italia» il recensore si chiede chi sia l’autrice. Matilde Serao scrive che si vede nei versi l’austerità della Sardegna, «ma ammorbidita, addolcita da una femminilità, dirò così, continentale». Ada Negri scrive che i versi di Mercede sono dolci e musicalissimi.
A Roma, in uno di questi salotti letterari, Mercede conosce Angelo Fortunato Formíggini. Sarà il suo nuovo editore. Formíggini, uno dei migliori editori italiani del Novecento, modenese, origini ebraiche, laureato in giurisprudenza nel 1901 con una tesi dal titolo altisonante che nasconde a stento l’ironia beffarda (lo ammetterà lui stesso anni dopo) con la quale il giovane studente si affaccia al mondo della cultura ufficiale: “La donna nella Thorà in raffronto col Manava-Dharma Sastra contributo ad un riavvicinamento tra la razza ariana e la semita”, vara collane editoriali di grande successo, la sua casa editrice ha sede prima a Modena poi a Genova e infine, per ironia del destino, a pochi metri da Palazzo Venezia a Roma. Nemico del filosofo Gentile e della filosofia dello Stato, Formíggini continua ad essere entusiasta di Mussolini, pur essendo numerosi i suoi libri dedicati alla satira politica.
Come molti editori è carico di debiti che copre con il proprio solido patrimonio familiare, interpretando la sua professione come una missione totale. Dal 1938, con il Manifesto sulla razza, finisce la sua voglia di sorridere. L’esclusione degli ebrei dalle scuole, dagli uffici pubblici, dalla titolarità delle aziende private gli toglie ogni illusione. I sacrifici di un’intera vita finiti nel nulla: prova un disinganno totale e feroce nei confronti di Mussolini. Il 28 novembre del 1938 raggiunge Modena, sale sulla torre della Ghirlandina e si getta di sotto. Un gesto estremo per protestare contro le leggi razziali e per salvare la famiglia, da parte di un uomo che aveva dedicato la vita alla cultura.
In una lettera alla sorella Cicita Mercede descrive il suo primo incontro con Formíggini. È il febbraio del 1925, interno di un salotto romano. I padroni di casa, in ascesa sociale, ospitano tra «atri, salette, quadri, bronzi, mobili scolpiti, tutto troppo nuovo, troppo odorante di bottega». Mercede conosce Formíggini, lo definisce simpatico e serio. La sorella Francesca aggiunge «uomo di profonda attrazione».
Mercede collabora subito per L’Italia che scrive e gli propone di tradurre, per la collezione Lettere d’amore, quelle di Michelet. Formíggini è entusiasta, giudicherà la prefazione di Mercede bellissima e le lettere alte e nobili, il volume appare come il più bello della collana. Mercede pensa di continuare la collaborazione anche per un “Classico del ridere, che non sia boccaccesco”, aggiunge arguta e vigilmente cattolica.
Nel 1924 Mercede vince il premio Merello per i sardi che si sono affermati fuori dall’isola. Nel 1933 esce per Formíggini il suo secondo volume di poesie dal titolo La collana di vetro.
Nel frattempo è cresciuta l’amicizia tra Mercede e Grazia Deledda, tutte e due sarde a Roma – scrive Antonio Romagnino «due caratteri completamente diversi – quanto era schiva e fredda Grazia tanto era estroversa e fervente Mercede – si incontrarono in un sodalizio lungo e senza nubi». Grazia Deledda confessa alla sua giovane amica cagliaritana quanto lo scrivere accresca «il suo prestigio in famiglia», confermando che i successi letterari fanno breccia anche sull’arcigno privato nuorese.
Mercede scriverà importanti biografie, tra le altre quella su Teresa d’Avila. Dunque una vita di successi letterari in lingua italiana. Ma quando la guerra interromperà i viaggi per la Sardegna, Mercede comincerà a scrivere in lingua sarda versi dedicati alla sua città, Cagliari, distrutta dall’Apocalisse dei bombardamenti, versi che raccontano la speranza di rinascere, quando le uniche due certezze della città sono «in cielu is turris», le torri dell’Elefante e di San Pancrazio, e la mesta processione di Sant’Efisio («Sant’Efis a Pula è ancora andau») che si svolge miracolosamente anche il primo maggio del 1943, seguita da una ventina di cagliaritani superstiti. Mercede morirà a Roma, il giorno della festa della sua città (il primo maggio del 1947), ormai in frenetica ricostruzione morale e materiale, come aveva previsto fiduciosa lei stessa, la poetessa cagliaritana più grande che aveva votato per la Repubblica, memore dei giorni bui della dittatura e della guerra.

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Dal volumeDa Rodi a Tavolara
Bianca Sotgiu Ripepi
Da Rodi a Tavolara. Per una piccola bandiera rossa
pp. 305-318

L’occupazione delle terre

È l’alba dell’11 marzo del 1950. In una vasta spianata, alla periferia del piccolo centro di Bono nel Goceano, ombre scure si muovono, si raggruppano silenziose, si cercano quasi a riconoscersi e a difendersi dal freddo penetrante della notte e dall’oscurità che non tarda a diradarsi. Le donne dalle lunghe gonne marroni, con i grandi scialli avvolti, sono solo bianchi volti baluginanti nel buio; volti duri e decisi per la consapevolezza del momento che stanno vivendo; voci brevi che si cercano, così come l’incrociarsi rapido delle mani per una conferma e un incoraggiamento.
Da tutte le strade adiacenti affluiscono i cavalli e gli uomini con gli usuali attrezzi da lavoro sulle spalle e le lanterne ancora accese. La piazza è ora una grande folla viva che aumenta di momento in momento; le voci e i richiami sono più vivaci e distinti, quasi che le ombre di dentro, le incertezze, le esitazioni siano state fugate col rischiararsi del cielo che impallidisce la luce delle lanterne.
Non c’è un segnale convenuto, non c’è un richiamo; ad un tratto come mosse da una abitudine implicita le donne si avviano, e dietro ad esse la folla di uomini e di cavalli per i sentieri che conducono al monte Pisano.
I carabinieri, che avevano fatto la loro apparizione per un controllo dei partecipanti, rimangono ai margini della piazza, immobili figure livide che si stagliano nella livida luce dell’alba, mentre su per la collina sulla lunga fila che si snoda, si sciolgono alla brezza del mattino, le prime bandiere rosse.
Gli avvenimenti che tentiamo di narrare si svolgevano nella prima quindicina del mese di marzo ed investivano la Sardegna intera. Sulle rive del Baratz, a Campo Giavese, nella Nurra di Alghero, o nelle zone del Campidano, confluivano a migliaia i contadini di Ittiri, Olmedo, Alghero, Mara, Padria, Monteleone, Cossoine, Semestene, Pozzomaggiore, Bono, Bottida, Anela, Esporlatu, ed infiniti altri piccoli centri che la memoria non registra, ma che hanno scritto questa storia delle terre incolte, marciando a piedi per decine di chilometri, superando i posti di blocco, laddove la polizia poteva essere meglio organizzata a contrapporsi al movimento; scrollandosi di dosso la paura del proprietario, del prete, delle minacce di scomunica, per chiedere solo un po’ di terra e la realizzazione di una legge dello stato.
Era una ondata di ribellione da anni contenuta che esplodeva e non in modo irrazionale; precisi erano gli obiettivi, analizzate a fondo le cause, ponderate zona per zona le richieste; la rabbia controllata riusciva a tradursi in una volontà cosciente e decisa di lotta per sopravvivere.
La Sardegna attraversava il periodo più duro del suo dopoguerra. Alle condizioni di arretratezza atavica che la guerra aveva aggravato per l’isolamento completo in cui era stata relegata per la mancanza di comunicazioni e di commercio in tutto il periodo delle operazioni belliche, si erano aggiunti anni di siccità che aveva vanificato i tentativi, sia pure modesti per la mancanza di attrezzature, di ripresa dell’agricoltura. Col ritorno dei reduci dalla guerra erano venuti a mancare alle famiglie anche i modesti assegni percepiti durante la guerra; la disoccupazione era una condizione permanente e come se questo non fosse sufficiente si era abbattuta per ben due volte la tragica calamità delle cavallette che avevano distrutto ogni traccia di vita vegetale su vaste zone dell’isola.
Le condizioni di miseria erano state secolarmente sopportate dalla popolazioni sarde; ma mai erano riuscite ad intaccare così profondamente il patrimonio culturale, di tradizioni e di costumi. La degradazione era in quel periodo talmente grave che solo rifacendosi a situazioni esistenti nel terzo mondo si può avere una vaga idea della realtà di quegli anni.
Le pecore, ricchezza di base di tutta l’economia dell’isola, morivano di fame; il patrimonio zootecnico vedeva registrata una diminuzione fino al 30% e le bestie superstiti si aggiravano come disperate su pascoli brulli ed insufficienti. I prezzi dei terreni a pascolo erano altissimi e l’agricoltura non aveva forze bastevoli per un minimo di ripresa. A questo si aggiungeva l’assenteismo dei proprietari che, per non affrontare rischi di spese, produttive solo a lungo raggio, preferivano lasciare incolte le terre e ricavarne dei profitti dandole, a prezzi esosi, a pascolo. La legge Segni-Gullo sulla assegnazioni di terre incolte frutto delle lotte del ’44, ’45, ’46, che tante speranze aveva suscitato e che avrebbe già da tempo dovuto essere operante, veniva vanificata dagli intralci burocratici e dalla volontà precisa degli agrari di impedirne la realizzazione.
Da anni i contadini e i pastori, sia pure con tutte le altre difficoltà facilmente intuibili nel clima di caccia alle streghe che aveva dato come risultato il 18 aprile del ’48, avevano, attraverso la Federbraccianti, iniziato le loro lotte; le prime occupazioni di terre del ’46 e ’47, le centinaia di assemblee tenute in tutte le zone dell’isola, dai centri più sperduti a quelli più grossi; l’azione politica dei partiti della classe operaia e dei sindacati, l’esempio della lotta dei minatori di Carbonia e del Sulcis Iglesiente, avevano provocato un risveglio di coscienza, che, pur nella lotta per la sopravvivenza quotidiana, per il pane, per un minimo sopportabile di vita, si proiettava però in una prospettiva ideale per un nuovo rapporto sociale che superasse la subordinazione tra lavoratori e padroni, ma anche tra i cittadini e lo stato.
In tutti questi movimenti era stato grande ed a volte determinante l’apporto delle donne, forza d’urto in tutte le lotte. La necessità di difendere i figli dalla fame, l’aspirazione non più derogabile per le strutture più elementari che permettessero una parvenza di vita civile ed umana, faceva nascere in esse, nei momenti più duri, malgrado tutte le remore di tradizioni antiche e quelle artificiosamente create dalle forze più reazionarie, una forza di volontà decisa ad abbattere le difficoltà e ad uscire dalla rassegnazione. La stessa capacità di sopportare le sconfitte quotidiane nell’urto con le autorità o con i proprietari si trasformava molto spesso in presa di coscienza. Il mancato sviluppo economico e sociale, la degradazione ambientale balzava agli occhi soprattutto per lo stato delle abitazioni, per le condizioni igienico-sanitarie e per lo stato di salute dei bambini. Pancini gonfi e piedi scalzi erano una norma quasi costante. L’assenza prolungata nel periodo della guerra aveva impedito sia la normale crescita edilizia, sia il mantenimento usuale delle abitazioni che denunciavano uno stato di abbandono non più sopportabile. Rachitismo, reumatismi, tracoma, stati pretubercolari, infezioni di vario genere, erano talmente diffusi da presentarsi come problemi insolubili.
L’assistenza sanitaria non era estesa a tutte le categorie e quella del Comune passava attraverso l’eca o attraverso le parrocchie e costituiva spesso, oltre che una fonte di ingiustizie, anche una pesante forma di ricatto morale.
L’Unione Donne Sarde aveva a questo scopo promosso una indagine sulle condizioni dell’ambiente in cui vivevano per creare le basi per alcune rivendicazioni elementari che portassero le masse femminili, soprattutto nelle campagne, ad uscire dallo stato di rassegnazione e richiedere una vita più umana.
Eravamo anche allora coscienti dei problemi dell’emancipazione della donna nelle sue linee ideali; del suo stato di subordinazione nell’ordine sociale esistente: ma eravamo altrettanto coscienti che la sua liberazione passava anche, nella realtà presente, nell’avere il pane per sfamare i figli; o avere una fontana pubblica (lontana ancora l’ipotesi dell’acqua corrente o della luce in tutte le case) che evitasse loro la fatica di trasportarla; o un gabinetto sia pure rudimentale in ogni abitazione; o una scuola che permettesse ai figli di non aumentare le file dell’analfabetismo, pressoché totale nelle campagne.
Era la lotta per l’esistenza la base da cui doveva partire la presa di coscienza della donna in quanto forza operante nella società. Anche la lotta per la pace, la raccolta di firme contro la bomba atomica, già avviata in quei momenti così gravidi di pericoli, partiva da queste basi. “Una casa in più, un cannone in meno”; “se riusciamo a costringere il governo a costruire una scuola, un asilo, una fontana, ci saranno meno soldi per le armi”. Erano questi gli argomenti più validi, perché giusti, per portare le donne alla lotta.
Il compito era arduo, sia per la scarsità dei mezzi a nostra disposizione, sia per la diffidenza, per la paura, per l’opera di denigrazione compiuta dalla Democrazia Cristiana e delle associazioni collaterali, legate alle forze più retrive. Tante porte rimanevano chiuse al nostro tentativo di condurre l’indagine che ci eravamo proposte; ma quelle che si aprivano mostravano quanto gravi fossero i guasti prodotti dai secoli di incuria in cui era stata tenuta la Sardegna. Non c’era una casa, qualche volta nemmeno quelle dei ricchi che avesse l’acqua corrente; nessuna che avesse il gabinetto: a questo scopo veniva usato il cortile retrostante alle abitazioni. Solo poche avevano la luce elettrica.
Un solo ambiente serviva per tutta la famiglia di sette, otto o più persone; in esso si cucinava, si dormiva, si viveva; talvolta esso serviva d’asilo notturno per gli animali da cortile, le galline, la capra, l’asino; perché solo i più fortunati avevano una stalla adiacente per ospitarli. Il camino serviva per cucinare e per riscaldarsi. Le suppellettili consistevano in un tavolo, un letto capiente, la cassapanca e le corbule appese ai muri.
Il sole e la luce penetravano dalla porta d’ingresso e da una sola piccola finestra; l’umidità regnava sovrana per la vetustà dei muri e dei tetti, per la mancata sistemazione delle acque piovane.
La memoria ritorna ad una casa di Bono costruita a ridosso di una strada sovrastante; durante l’inverno le acque piovane della strada si riversavano sui muri, impregnandoli di umidità. Per ovviare a questo grave inconveniente i suoi occupanti avevano costruito una sorta di canale di scolo che da un buco del muro convogliava le acque della strada in un canaletto che attraversava la stanza da letto e fuoriusciva poi, da un altro lato, verso la parte più bassa della strada. Così si dormiva con il ruscello in casa.
Le documentazioni potrebbero prolungarsi perché lento, lungo e paziente era il lavoro ed infiniti i casi che si presentavano alla nostra indagine.
Ma in quei giorni di marzo la nostra attenzione si rivolgeva alle discussioni che dappertutto nei paesi si svolgevano con intensità. I contadini erano in movimento; i problemi da noi posti erano soverchiati da uno più urgente: la lotta per la terra.
Le donne si raggruppavano intorno a noi nelle strade, davanti alle case, e parlavano della necessità di rompere con quella situazione: non ce la facevano più ad andare avanti. I paesi del Goceano (ma così anche la Nurra) avevano intorno grandi distese di terre demaniali che la forestale utilizzava come stazioni sperimentali per le culture arboree pregiate. In tutta la zona impiegavano 50 o 60 uomini che periodicamente venivano assunti per il controllo delle piante o per impedire l’ingresso alle greggi. L’erba vi cresceva alta e verde (siamo in inverno) ed intorno le pecore morivano di fame; i rari sconfinamenti venivano puniti con multe pesanti e talvolta con il sequestro; anche se ti trovavano a raccogliere legna ti sequestravano le fascine, la corda e l’accetta.
Contraddizioni ed incertezze affioravano: si dovevano toccare le terre dei padroni anch’esse incolte? Le antiche ingiustizie venivano alla coscienza, i soprusi, il bisogno di dire basta. Le donne si chiedevano soprattutto: perché tutto questo? Chiediamo solo un po’ di terra per un po’ di grano. E la risposta veniva spontanea: dobbiamo prendercela, dobbiamo lottare noi donne in primo luogo perché sopportiamo più degli altri, perché sulle nostre spalle ricade il peso maggiore. Gli uomini in fondo alla sera riescono a bere un po’ di vino ed ubriacarsi; è la nostra sofferenza che continua.
Per questo all’alba dei giorni che vanno dal 9 al 15 marzo, migliaia di donne hanno trovato la forza di uscire dalle case e insieme agli uomini si sono avvia-
te come in un’epica migrazione verso le terre incolte.
Su per la montagna si incrociavano i richiami di vallata in vallata, dall’una all’altra carovana; provenienti da tanti paesi, dirette tutte alle falde del monte Pisano, oltre la Stazione delle guardie forestali, punto convenuto di incontro. La marcia è lunga e faticosa e una volta arrivati e rinfrescati alle acque del ruscello, le donne si siedono in grandi cerchi con i ragazzi a riposare; gli uomini appena mangiato un po’ di pane e formaggio e un po’ di vino si mettono al lavoro per iniziare il ripulimento del terreno per una simbolica preparazione del terreno alla semina.
Il sole è alto e la vallata è luminosa. È uno scenario biblico; non diversamente dovevano apparire le migrazioni degli ebrei verso la terra promessa.
E un incanto, forse un senso di irrealtà ci prende tutti in quei momenti: una speranza, anzi la certezza che tutto fosse possibile, che la terra si potesse veramente lavorare, che non poteva essere che questa la conclusione, perché la terra era lì, cosa viva e reale, pronta alle mani dei contadini.
Ma in alto, sulla cresta della collina appaiono, raccolti anch’essi da tutti i paesi intorno, i carabinieri e le guardie forestali che scendono in ordine sparso come per una azione di guerra. I cerchi delle grandi gonne si restringono e intorno siedono gli uomini.
Le donne intonano i loro canti tristi e struggenti, canti di una terra sofferente e consapevole; lento e dolce il lamento del “mottetto”. Grida la sua protesta ai carabinieri che ci circondano.
L’eco del canto si ripercuote nella vallata quasi che altre centinaia di voci rispondano da lontano, un coro che sembra nascere dalla terra stessa.
Comincia la decimazione: per ogni dieci persone, una deve dare il suo nome e viene messa da parte in stato di arresto; per coloro che sono sospettati di essere i dirigenti c’è un trattamento speciale: vengono arrestati tutti.
Corrono in dialetto motti di spirito. “Il tuo nome? Non ne ho, ho dovuto mangiarlo per la fame”. Oppure “Sai come mi chiamo? ‘Famitu’ dalla mattina alla sera, dal mio stomaco lo sento questo nome. La notte dormo e non lo so più il mio nome”.
Nessuno dei presenti si muove finché i carabinieri ordinano agli arrestati di mettersi in marcia e di risalire la collina verso la sede delle guardie forestali; lì troveremo le camionette che ci riporteranno in paese. Gli altri che ci seguono torneranno a piedi, li troveremo poi all’ingresso del paese ancora con le bandiere rosse ad aspettarci per vederci passare.
Nel risalire la collina una delle guardie forestali mi parla del loro lavoro, delle colture pregiate; mi spiega la differenza tra il cedro del Libano e quello americano, ma non saprò mai quale sarà la sorte di questi fortunati alberi.
Penso alle decine di donne che insieme a me risalgono questa collina, alle loro ansie che sono le mie, al carcere che ci attende, ai figli piccoli che sono a casa.
E se guardo giù nella vallata penso alle immense distese di terra che attendono le mani dell’uomo, a questa terra promessa che ci viene negata; alla lotta che dovremo ancora, per chi sa quanto tempo, condurre; a questa storia della Sardegna che stiamo scrivendo con rabbia, con sacrificio, con le lacrime che ci premono dentro. Ma penso anche alle migliaia di donne che, in questi giorni, per tutte le strade della Sardegna tracciano sentieri nuovi e camminano verso orizzonti diversi; anche se questa è una lotta per la sopravvivenza, in nome di un vivere quotidiano, che può non essere liberatoria per la condizione femminile, il fatto di essere in prima linea, protagoniste per la conquista di un diritto alla terra che è anche il loro, è un passo sulla via della emancipazione.
Altre lotte ed altre sconfitte sapremo negli anni avvenire, ma anche altre vittorie. Conosceremo lo scontro violento con la polizia e lo scontro diretto con le autorità, per la casa, per la scuola, per gli ospedali, per i servizi civili che rendano possibile il lavoro della donna fuori dalle mura domestiche; per uno stato giuridico più giusto, per il divorzio, e per la libertà di concepire e portare al mondo i figli che vogliamo.
Conquisteremo altri diritti e pagheremo altri pesanti scotti per ogni diritto conquistato.
Ma se ci guardiamo indietro, noi stesse così diverse interiormente e le altre donne intorno a noi, nel mondo così anch’esso diverso, ma talvolta più contraddittorio e frustrante per la condizione femminile, ci vien fatto di pensare, che le giovani, meravigliose protagoniste della lotta di oggi per una più reale liberazione della donna, sono nate sugli scoscesi sentieri del monte Pisano, sulle rive del Baratz, sulle desolate spianate di Illorai, di Anela, di Bultei, di Cossoine, sulle infinite strade tracciate da nomi e volti oscuri e dimenticati in quei giorni lontani».
Il carcere
Mio suocero, dolcissimo uomo, è venuto a trovarmi in carcere, preoccupato e anche desolato, vorrebbe farmi avere del cibo da fuori, ma lo rassicuro spiegandogli che riuscirò a resistere per quanto duro possa essere star lontano dai miei e rimanere in carcere. Vi sono accanto a me delle povere donne che scontano varie pene e hanno tristi storie da raccontare; storie di miseria o di tradimenti che hanno logorato le loro esistenze e le hanno condotte sino al delitto talvolta, ma non alla delinquenza. E inoltre ho le visite e l’appoggio intelligente del mio avvocato Gonario Pinna, con il quale ho lunghe, interessanti conversazioni che mi tirano su il morale. La secondina ha una piccola bimba, molto carina, che va a scuola e io l’aiuto a fare i compiti e le giornate passano e sappiamo che il processo sarà fatto per direttissima. C’è un po’ di preoccupazione perché il prof. Dessanay è stato condannato a sei mesi, ma non gli hanno concessa la condizionale, per cui rimarrà in carcere. Il cibo è quello che è, ma ho passato giorni peggiori e non è una minestra mal condita che mi possa sgomentare, anche se c’è la cipolla a cui sono allergica.
Girolamo non verrà a trovarmi, ma sono stata io a pregarlo di non farlo: voglio evitargli la trafila non molto piacevole dell’attesa dei colloqui, della banalità a cui si riduce un colloquio in carcere; ricevo le sue lettere e gli scrivo e questo mi basta per sentirlo vicino. Ricevo inoltre tante lettere e tante manifestazioni d’affetto dai compagni e mi sembra perciò di essere presente al grande movimento che si vive in quel momento in Sardegna e mi fa superare lo choc della separazione del mondo vivo. I miei bambini sono al sicuro presso i parenti, anche se capisco che sono abbastanza grandi per rendersi conto delle cose avvenute e pur sapendo che ne soffriranno, mi conforta il pensiero che tutta questa vicenda avrà una rapida soluzione. Il giorno del processo Girolamo mi porterà un completo nuovo e molto elegante; finalmente riuscirà a vedermi ben vestita, così come lui ha sempre desiderato; so che da questo punto di vista l’ho deluso; perché a me non importava quasi nulla, qualunque cosa indossassi mi andava bene, bastava che mi sentissi a mio agio. Devo dire che, grazie a mia cognata Liana, che per lungo tempo mi ha passato i suoi vestiti sempre molto belli, anch’io potevo avere un aspetto decentemente elegante; ricordo un tailleur di velluto blu che mi è servito per anni per i miei comizi, perché in quel caso, era necessario presentarsi bene.
Alla fine del processo, malgrado la condanna ad undici mesi ci è stata concessa la condizionale, ci rincontriamo: lui è molto commosso, ed è come un ritrovarsi, forse ancora più uniti; l’ho sentito come sperduto e capisco che, anche se modesto, il mio appoggio nella sua vita quotidiana, e non per le necessità comuni della vita, ma proprio per il suo essere uomo, qualunque sia il suo ruolo pubblico del momento, gli è mancato. Forse non sono perfetta, forse non sono proprio il suo ideale, questo non lo saprò mai, ma sono la sua donna e anche la compagna, nel bene e nel male, della sua vita. Mi viene in mente una immagine un po’ strana: lui è il timoniere e io sono la barca, indissolubilmente legati, affrontiamo le onde e anche le tempeste; in qualche momento l’imbarcazione può non rispondere ai comandi, ma se il timoniere è bravo riuscirà sempre a governare.

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